PerformAzioni Workshop Festival
I laboratori del Festival PerformAzioni sono finestre aperte sulle stanze chiuse dell’artista e delle compagnie, offrono allo sguardo esterno l’occasione di entrare e scoprire il flusso artistico dei suoi partecipanti. Non ci sono maestri e alunni ma solo ricercatori.
L’arrivo della primavera quest’anno a Bologna è coinciso con la II edizione di PerformAzioni, il festival dedicato alle arti performative organizzato dalla compagnia Instabili Vaganti presso il loro centro di ricerca e formazione LIV. Difficile immaginare un contesto migliore di questo per lo studio e la ricerca sul movimento e la voce: il LIV è immerso nel verde di un enorme parco nella periferia bolognese dove regnano silenzio e colori, nonché una nutrita schiera di umarel (gli anziani) bolognesi. Research project, questo il titolo dell’edizione di quest’anno, raccoglie quattro tra maestri e compagnie provenienti da diverse parti del mondo che mettono a disposizione la loro arte e la loro metodologia in quattro differenti laboratori.
Ho avuto l’occasione di seguire da vicino InOrganic Body – Upgrading Actor, il workshop sul training fisico e vocale tenuto da Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola di Instabili Vaganti e a Songs as the source: the way of the energetic voice and vocal action, condotto da Shamal Amin e Nigar Hasib del Lalish Theater Labor di Vienna, entrambi dedicati all’indagine sulla stretta relazione tra movimento fisico e voce.
L’attenzione dei confronti del suono era già stato un elemento centrale del primo laboratorio, Il corpo in-stabile, condotto da Anna Albertarelli e Roberto Passuti di Gohatto Project: un’occasione per approfondire delle strategie di ricerca, più che un ricerca vera e propria. Attraverso esercizi molto semplici, i partecipanti sono stati guidati a una rieducazione all’ascolto tramite la percezione di suoni organici (modificati elettronicamente da Passuti) e lo studio delle risonanze sonore tra questi e il corpo, le sue singole parti. Il corpo e il suono in questo studio non si accompagnano ma dialogano. In un’ideale continuità tra un laboratorio e l’altro, il Festival quest’anno è stato pensato per fornire ai partecipanti quanti più strumenti necessari per portare avanti un proprio percorso di crescita artistica: dallo studio del suono e degli effetti che esso ha sul nostro corpo anatomico (Gohatto Project), all’approfondimento del gesto ripetuto e del suono vocale che ne è l’immediato prodotto (il laboratorio di Instabili Vaganti), a una concentrazione maggiore sullo studio della voce (Lalish), fino a giungere al training dell’attore focalizzato sulla creatività individuale portato avanti nell’ultimo laboratorio, POOLing, condotto da Nhandan Chirco, durante il quale ci si è concentrati maggiormente sulle singole individualità piuttosto che al gruppo (come prevedevano soprattutto il secondo e il terzo workshop).
Il Festival ha offerto spazio non solo alla formazione ma anche alle performance, momenti di apertura in cui, in scena, è stato possibile scorgere il punto di arrivo (che pur conserva la natura di work in progress) del percorso portato avanti da due delle compagnie che hanno animato il Festival. Tra gli eventi speciali aperti al pubblico, L’eremita contemporaneo di Instabili Vaganti, offre uno spunto per comprendere il tipo di lavoro che la compagnia ha voluto approfondire all’interno del proprio laboratorio e rappresenta una finestra aperta sulla ricerca e il percorso che la stessa compagnia porta avanti da qualche anno a questa parte. Nell’epoca in cui le fabbriche chiudono e il mestiere di operaio sembra estinguersi o, comunque, perdere l’alone di tragicità e mito che aveva fino a qualche anno fa, sembra anacronistico ritrovarsi ad assistere a un lavoro come questo. Su una scena spoglia e scura si staglia solo una scaletta di ferro appoggiata su una fabbrica proiettata in video bianco e nero. E un operaio, succube dei tempi incalzanti della catena di montaggio, protagonista di una vita non sua, di un tempo scandito da ore che non gli appartengono. E invece, L’eremita contemporaneo, nato dal progetto internazionale LENZ e parte integrante di un nuovo progetto (Running in the fabrik) avviato dalla compagnia nel 2008, racconta una storia che potremmo definire universale e sempiterna: l’alienazione e la solitudine forzata non sono un’esclusiva delle fabbriche, le condizioni disumane in cui lavorano gli operai dell’Ilva di Taranto, realtà dalla quale Instabili Vaganti ha voluto prendere spunto (anche per la vicinanza biografica tra Anna Dora Dorno e l’impianto siderurgico pugliese), possono estendersi e metaforicamente abbracciare tutte quelle vite che perdono il controllo di se stesse continuando così a garantire il funzionamento del sistema. Il pericolo di lasciarsi inghiottire è sempre attuale, fuori e dentro la fabbrica. L’eremita solitario è l’emblema di questo processo, i suoi gesti sono ripetuti decine di volte, fino all’estremo.
È uno schizofrenico (come Jakob Michael Reinhold Lenz, al quale Instabili Vaganti ha già dedicato un progetto da cui poi è nato questo di Running in the fabrik). Il suo agire, il suo parlare riproducono inevitabilmente i ritmi della fabbrica e da quella ripetitività, brutale meccanizzazione, viene fuori un uomo che ha perso il contatto con se stesso, che si tocca affannosamente la faccia e non si riconosce più. “Corri, lavora, agisci, produci, crea”: il mantra dell’eremita odierno che si trasforma sulla scena in canto, sempre più affannoso. Il corpo dell’uomo operaio è quello di Nicola Pianzola, protagonista della scena, e il canto è quello di Anna Dora Dorno che, insieme alle musiche eseguite dal giovanissimo compositore Andrea Vanzo, ora asseconda i ritmi della fabbrica guidando il protagonista verso la sua progressiva spersonalizzazione, ora dolcemente sembra suggerire tempi diversi, immagini più luminose, mondate di tutto il grasso e il sudore. Sono i momenti in cui l’illusione è massima, quelli in cui l’eremita, in un guizzo improvviso di umanità, si scopre capace di sognare, ed è quasi un ritorno alla materia viva, pulsante, alla sensazione di corpo nuovo e pulito. È centrale qui il contrasto tra movimento inorganico, disanimato, alienato ed alienante e la materia organica, viva di cui l’uomo è composto, nonostante i continui attentati della contemporaneità di ogni tempo. Contrasto ben rappresentato dall’opposizione tra il ferro (la materia fredda di cui la fabbrica è in gran parte composta) e il corpo vivo e irrequieto dell’uomo operaio.
Se nell’interpretazione del gesto alienato l’esperimento, grazie all’agilità di Pianzola, è ben riuscito (a tal punto che le azioni compulsive quasi scompaiono alla vista dello spettatore), ciò che trascende da tale gesto appare un po’ affettato: il pianto, le grida esasperate dell’uomo schiacciato dal potere della macchina per cui lavora se venissero riassunte, concentrate anch’esse in un gesto meccanico potrebbero avere forse maggior grazia pur mantenendo la stessa dose di disperazione. L’opposizione inorganico/organico è alla base della ricerca della compagnia che ha impostato proprio su questa dualità il laboratorio proposto per il Festival, InOrganic Body – Upgrading Actor. Agli allievi del workshop è proposta la stessa indagine sul movimento ripetitivo e meccanico dell’operaio analizzato, all’interno del progetto Running in the fabrik, a partire dallo studio che a fine ‘800 ne fece Frederick Winslow Taylor al fine di perfezionarlo in termini di produttività in fabbrica. Lo scopo: riuscire a estrapolare materiale poetico dalla violenza di quel movimento disumano. Uscire (ognuno a modo proprio, il laboratorio lascia spazio alle singolarità dei suoi partecipanti) dalla costrizione dei gesti sempre uguali e, proprio grazie a questi, creare nuove forme di espressione poetica. Tutto parte dall’indagine di un’unica azione, o meglio di un frammento d’azione, dal ritmo che scaturisce dalla ripetizione di tale frammento e dal suo riverbero nel corpo dell’attore che si tradurrà in suono vocale.
Essendo durato appena 3 giorni, il laboratorio è terminato in un momento critico, quello in cui i partecipanti cominciano a studiare su di sé il significato e gli effetti dei nuovi strumenti acquisiti che spesso provocano disorientamento. Tuttavia, è stato interessante notare come per alcuni l’ausilio di elementi esterni (una semplice pietra o l’accompagnamento ritmico da parte dei compagni) si sia rivelato fondamentale per l’individuazione del proprio centro, del proprio motore e li abbia condotti più agevolmente nell’analisi approfondita di quell’unico frammento d’azione. L’obiettivo di un laboratorio come questo non è quello di imparare un nuovo metodo e metterlo da parte, bensì quello di individuare in quel metodo gli elementi che si vogliono approfondire per la propria crescita artistica e su cui lavorare in modo indipendente anche dopo la chiusura del workshop.
Così anche per il laboratorio condotto dal Lalish Theater Labor: Shamal Amin e Nigar Hasib, originari del Kurdistan iracheno e trasferitisi da più di 20 anni a Vienna, studiano la voce come fonte di energia e sul modo con il quale “fotografarla” attraverso il movimento che in nessun caso accompagna la voce bensì le conferisce una forma. L’uso di canti dell’antica tradizione curda non è nient’altro che uno strumento per veicolare l’apprendimento della tecnica di canto fondata sulla laringe, quello che importa è la ricerca nel suono delle parole, non nel loro significato. E, infatti, spesso gli esercizi utilizzati constano in una serie di sillabe prive di significato ma che, tuttavia, riescono a veicolare un senso ( e sarà diverso per ogni attore/spettatore). E non è importante che tutti cantino allo stesso modo: “ogni voce è meravigliosa”, afferma Nigar Hasib, e il suo laboratorio serve a capire come la si vuole utilizzare, serve a educarsi alla libertà di scoprirla fino in fondo e offrirla agli altri attraverso l’azione. Creare un’azione vocale, anche pronunciando parole prive di senso. È formidabile con quanta dolcezza ed entusiasmo la sapiente guida di Shamal e Nashib, che sembrano arrivare qui in Italia non da Vienna ma da un altro pianeta, da un altro tempo, riesca a sciogliere i nodi alla gola dei partecipanti e conduca questi ultimi verso un canto potente ed energico, ma allo stesso tempo naturale come fosse acqua che scorre dal corpo verso l’esterno. O, per usare un paragone caro a Lalish, un serpente che sinuosamente prende forma dentro e fuori dal corpo umano. In ogni caso, si tratta di un canto condiviso, che non perde mai la connessione con tutto ciò che lo circonda, persone e oggetti inanimati i quali, in un modo o nell’altro, forniscono degli impulsi impossibili da ignorare se si sta in guardia e si riesce ad avere pieno controllo del proprio corpo nello spazio. Il momento di incontro tra Lalish Theater Labor e un pubblico più ampio coincide con la messa in scena di No shadow, la performance che da sei anni la compagnia curda rappresenta in tutto il mondo in maniera sempre diversa: No shadow è un progetto che va ampliandosi e maturando nel tempo e che muta anche a seconda dei luoghi che attraversa.
Difficile parlare di messa in scena: con naturalezza e cordialità i due protagonisti hanno accolto gli spettatori in sala, facendoli accomodare ed entrare a poco a poco nello spazio vuoto, sempre più pieno. Per Shamal e Nigar ogni spettatore entra a far parte di No Shadow, ne influenza più o meno lo svolgimento. Il dialogo tra attori e pubblico è quasi palpabile. Difficile non credere alle parole di Nigar quando racconta che in Inghilterra una spettatrice durante la performance ha cominciato a cantare insieme a lei: il coinvolgimento è forte, determina il lavoro in scena da una parte, e dall’altra la percezione che di esso ha il pubblico. Eppure tale coinvolgimento non avviene tramite le parole, o meglio solo attraverso il loro significante. Il significato è oscuro: il linguaggio è inventato, una lingua artistica modellata dai due attori, accompagnata da un paio di testi in curdo antico. L’intera performance è come un ricco contenitore che ognuno riempirà con le proprie suggestioni veicolate dai passi leggeri, dai canti e dalle voci di Nigar e Shamal. A me è parsa una lunga conversazione tra l’Uomo e la Donna, in cui ogni astante poteva entrare a far parte e stupirsi del magico equilibrio tra questi. Un rituale pieno di segni, di simboli (il bianco del telo che srotolandosi accoglie i passi della Donna, della farina con cui l’Uomo traccia dei disegni a terra, delle zollette di zucchero che la Donna getta a terra come sassolini di un mago) e di suoni misteriosi.
Uno dei quesiti da cui è nato il Festival PerformAzioni, mi racconta Nicola Pianzola, è che “dato che siamo giunti quasi al termine di una generazione di maestri, vogliamo capire chi sono e saranno i prossimi”. Domanda che ha scosso non poco le mie certezze riguardo al tema della formazione. Il maestro, nel mio immaginario, ha i capelli bianchi e la voce pacata e forte allo stesso tempo. Il maestro ideale è Shamal Amin (anche se di capelli bianchi ne ha pochi); insomma è qualcuno che grazie all’esperienza e l’età trasmetta un sapere complesso, antico, saldo rispetto all’inevitabile fragilità dei saperi contemporanei. Così ho chiesto a Nigar Hasib quando e come un artista diventa anche un maestro. “Un maestro nasce quando qualcun altro ne ha bisogno e ne fa esplicita richiesta”. Scopro così che Nigar e Shamal hanno iniziato a condurre laboratori, a rispondere cioè alle richieste di insegnamento, sin dal 1988. Saranno state anche allora persone aperte e comunicative ma non avranno avuto nemmeno un filo bianco in testa. “Non è l’età che conta”, afferma Anna Dora Dorno, “quello che conta è l’esperienza. Ho conosciuto tanti maestri anziani il cui lavoro non era più in evoluzione: così si può insegnare una tecnica ma non stimolare alla ricerca continua”.
L’idea di laboratorio che PerformAzioni porta avanti è quella di un momento, uno spazio in cui condividere le proprie tecniche, più che insegnarle. Mostrare il punto della propria ricerca al quale si è arrivati e condividerlo. Ma a quanto pare non è sempre facile: Anna Dora e Anna Albertarelli parlano di giovani spesso sfiduciati, poco entusiasti, sconfitti già in partenza, poco convinti di quello che fanno, eppure mossi da una grande ansia di mostrare e mostrarsi, nonostante siano raramente disposti a sudare. Quello che manca spesso è il desiderio ardente, la passione che ti spingono a prendere una strada piuttosto che un’altra. La crisi economica che stiamo attraversando è anche la crisi delle prospettive, elementi fondamentali per immaginarsi il cammino che si vuole percorrere ed essere disposti anche ai sacrifici necessari per percorrerla in maniera quanto più completa possibile. Penso che, allora, in un momento di crisi come questo, il ruolo del maestro sia ancora più delicato e difficile e che grandi sono le responsabilità di esperienze come questa di PerformAzioni che, anche per la sua apertura nei confronti di diverse discipline e per l’attenzione rivolta al panorama extraeuropeo, nonostante necessiti ancora di rodaggio, è un buon esperimento nel contesto teatrale italiano.
Marta Ragusa
in: SuccoAcido.net
2012